UNA PRIMA GEOGRAFIA (POLITICA) DELLA 60. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE DI VENEZIA ALLA BIENNALE DI VENEZIA, STRANIERI OVUNQUE

LUCA MUSCARÀ

20/04/2024

Venezia – Sabato 20 aprile ha aperto la 60 Esposizione internazionale d’arte di Venezia e l’intera città palpita delle opere e dell’energia di quanti, in varie forme, dedicano la propria vita alla ricerca artistica. Nessun’altra manifestazione italiana riunisce in una sola città una varietà di mondi tanto ricca e diversa da fare invidia all’assemblea generale dell’ONU, ma è soprattutto l’energia creativa che si percepisce in questi giorni nei quali il colorato mondo dell’arte si raduna nella città acquatica dalle capitali dell’arte contemporanea – New York e Parigi, Londra e Berlino in primis – ai più remoti e disparati angoli di ogni continente: artisti e curatori, galleristi e critici d’arte, collezionisti e appassionati di varia estrazione sociale, sensibilità e provenienza geografica.

Foreigners Everywhere/Stranieri Ovunque è il quanto mai opportuno titolo della nuova Biennale, che il direttore artistico Adriano Pedrosa – il primo proveniente dall’emisfero Sud – ha individuato per rimarcare il paradosso della condizione esistenziale contemporanea, che se alla scala planetaria offre inaudite potenzialità, insieme è turbata da una molteplicità di crisi e conflitti.

Se l’arte è specchio della società, luogo del ritorno del represso e del rimosso, nell’invocare fin dal titolo la condizione di straniamento sociale e individuale verso le brutali contraddizioni del nostro tempo, questa Biennale per interrogarsi e interrogarci molto oltre la dolorosa questione di xenofobia e razzismo: se siamo stranieri in ogni luogo, chi è dunque cittadino a casa propria?

Lo stesso passaporto (anche per quelli cui è concesso) non pare offrire più le certezze nazionali di fine-ottocento, di quando la Biennale fu fondata (1893). Così il padiglione della Russia (chiuso dal 2022) riapre per ospitare la Bolivia risuona delle musiche dei popoli andini, mentre artisti e curatori di Israele saggiamente chiudono il proprio padiglione ‘fino a quando il cessate-il-fuoco e il rilascio degli ostaggi non saranno accordati’.

Con quattro new entries (Benin, Etiopia e Tanzania, Timor Leste) le partecipazioni nazionali sono ormai 87 e la storica serie dei padiglioni nazionali dei Giardini pare pacificamente occupata dalle rispettive minoranze nazionali – di solito occultate o rimosse – trascendendo il pur presente riferimento a colonialismo e migrazioni. Il padiglione americano, quest’anno è la personale di Jeffrey Gibson, nativo americano Choctaw/Cherokee, che ne trasforma interamente esterno e interno, per trasmettere una carica artistica di forme, colori e ottimismo, mentre quello brasiliano vibra degli uccelli capoeira e delle piume dei ‘mantelli in movimento’ della comunità Tupinambà.

Nel padiglione austriaco, Anna Jermolaewa, rifugiatasi in Austria nel 1989 dall’Unione Sovietica, presenta una collezione di musica rock occidentale proibita che eludeva i controlli con dischi incisi su ‘lastre’ radiografiche riciclate anziché sul vinile. In quello danese, ribattezzato Kalaallit Nunaat, troviamo l’interessante collezione di foto storiche degli Inuit di Groenlandia. Il padiglione centrale è trasformato all’esterno dal colorato murale del movimento artistico indigeno Huni Kuin (MAHKU), mentre all’interno il Nucleo Storico è una inedita rassegna di opere del modernismo non-occidentale del Novecento che esplora mediante inaspettati accostamenti pittorici le rappresentazioni della figura umana e le astrazioni.

Con oltre 331 tra artisti e collettivi che attraversano 80 paesi, la lista è lunga e ricca, e dai Giardini si prosegue in Arsenale, fin dalla grande installazione d’apertura del collettivo di artiste maori Mataaho di Aotearoa (Nuova Zelanda). Alle Corderie incontriamo poi il Nucleo contemporaneo: con l’installazione multi-video che coniuga arte e attivismo del Disobedience Archive di Marco Scotini, (tra gli altri, col contributo di LIMINAL & Border Forensic sulla localizzazione delle imbarcazioni cariche di migranti alla deriva al largo della costa libica); i bellissimi inchiostri colorati su tessuti calicò di Madge Gill; o la magnifica installazione che trasmuta di luce, materia e immagine del newyorkese WangShui.
E’ solo una prima geografia di una Biennale multietnica, multiculturale e carbon-neutrale, che merita non meno di tre giorni per visitare anche i padiglioni sparsi in città, le esposizioni collaterali e tutte le altre che hanno già inaugurato la stagione (da segnalare due bellissime opere: ‘Omen’ di Urs Fischer e il ‘Cristallo di Pace’ di Mariko Mori a Palazzo Diedo (Fondazione Bergruen).

La grande varietà – e le molteplici occasioni di bellezza – incontrate finora a Stranieri Ovunque ci riportano infine a un’introspezione soggettiva, che nel ricordarci che oggi l’isolamento locale del passato è impossibile, questa Biennale pare indicare nell’arte una cura contro l’alienazione individuale e collettiva ormai pervasiva. Se la coabitazione pacifica non è impossibile: la pluralità creatrice delle voci e dei mondi presenti a Venezia mostrano che forse la via per pervenirvi e per pensare a un governo dell’insieme all’altezza delle innumerevoli sfide poste dall’accelerazione globale della storia, passa inevitabilmente per l’ispirazione e l’innovazione che, oltre che dalla scienza, proviene dalla cultura e dall’arte.

Stranieri Ovunque è infine constatazione ben nota ai pochi veneziani rimasti. In questa Biennale, anche Venezia ritrova un poco sé stessa, ritrova la possibilità di un’alternativa reale all’overtourism globale, alternativa che rinnova nel segno dell’arte contemporanea la storia di una capitale della cultura e degli scambi tra mondi lontani su cui già costruì la propria fortuna.

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